Descrizione
Domenica 26 gennaio 2025 alle ore 16:00 presso la Chiesa dei Batù in Piazza Roma, Pecetto Torinese, in occasione della Giornata della Memoria, il Comune di Pecetto è lieto di invitarvi a un emozionante reading teatrale dal titolo "La Bicicletta di Bartali", organizzato in collaborazione con l’associazione Aedi Teatro.
Un momento di riflessione e commemorazione per onorare tutte le vittime dell'Olocausto e per non dimenticare. Vi aspettiamo numerosi per condividere insieme questo importante momento di memoria.
Gino Bartali è un italiano che ha traversato da un capo all’altro il Ventesimo secolo, diventando un protagonista del proprio Paese. Un italiano al tempo stesso normale e straordinario. Un uomo semplice e coraggioso, che ha concluso i propri studi con le elementari, ma che è sempre stato pronto a imparare. Un uomo legato ai propri valori, a un reale senso di saggezza e a una volontà di ferro.
Gino, che tra i suoi soprannomi ha avuto appunto quello di uomo di ferro, ha espresso la sua voglia di vivere facendo quel che sapeva e voleva fare: pedalare. S’è impegnato nello sport senza rifiutare altre forme d’impegno. Senza chiudere gli occhi davanti ad altri problemi né davanti ai problemi degli altri. Pedalando, ha esaltato se stesso e a suo modo ha fatto politica. Quella nobile, non quella dello struzzo. Quando le vicende e le tragedie della guerra l’hanno messo di fronte all’alternativa tra opposte concezioni dell’esistenza – assumere fino in fondo le proprie responsabilità o nascondere la testa nella sabbia – Gino ha scelto la prima strada. Non ha esitato a correre rischi pur di salvare vite umane. L’uomo di ferro aveva un cuore d’oro. E lo ha dimostrato coi fatti.
Gino Bartali (Ponte a Ema, Firenze, 18 luglio 1914 – Firenze, 5 maggio 2000) è un personaggio capace ancor oggi (forse oggi persino più di ieri) di coinvolgerci, di sorprenderci, di intenerirci. Da buon italiano, è un figlio della propria terra, che è nel suo caso la Toscana. Fiorentino al cento per cento. Come atleta, Bartali ha percorso oltre 700 mila chilometri in bicicletta. Più o meno quelli che gli sarebbero stati necessari a raggiungere la Luna e a tornarsene poi sulla Terra. In quei 700 mila chilometri ci sono quelli che interessano la storia dello sport e quelli che interessano la Storia con la “S” maiuscola.
Proprio nel periodo del conflitto, in quel biennio terribile che fu per l’Italia il 1943-44, Gino ha partecipato a una drammatica sfida in bicicletta. Lo Stivale era in quel momento diviso in due: gli Alleati lo risalivano da Sud e gli occupanti tedeschi, in compagnia dei loro vassalli fascisti, imponevano il proprio dominio e le proprie persecuzioni su una gran parte del territorio. Migliaia di ebrei erano rifugiati in luoghi più o meno sicuri. Buona parte di loro aveva trovato scampo nei conventi. I perseguitati avevano cambiato vita e dovevano cambiare identità. Avevano bisogno di falsi documenti per accedere al razionamento alimentare e soprattutto per non incappare in una retata nazifascista.
L’organizzazione clandestina di cui Gino ha fatto parte si occupava della fabbricazione e della consegna di questi falsi documenti di identità. È a questo scopo che il grande campione delle due ruote ha percorso i chilometri più importanti della sua vita e soprattutto di quella altrui. Migliaia di chilometri nel cuore di un’Italia sconvolta dalla guerra, dove ogni spostamento insospettiva i tedeschi e collaborazionisti al loro servizio. Grazie a persone coraggiose, come Gino e come tanti altri, un’efficacissima rete clandestina ha potuto salvare centinaia e centinaia di ebrei in Toscana, in Liguria e in Umbria.
Finita la guerra, ecco Bartali tornare alla sua amatissima attività sportiva. Senza dire una parola a proposito di quel che ha fatto contro la barbarie nazifascista, macinando chilometri a cavallo della sua bici. Bisogna attendere la fine del secolo e la fine della sua vita perché filtrino informazioni precise sulla sua presenza nell’organizzazione di aiuto ai perseguitati. Col trascorrere dei decenni, libri, articoli di giornale e film (anche se talvolta imprecisi e un po’ romanzati) sono sempre più espliciti a proposito del ruolo di Gino nelle reti che hanno agito d’intesa con la Resistenza.
In realtà, di suoi contatti con la Resistenza Bartali ha parlato. Lo ha fatto in una conversazione privata con un suo amico francese: l’uomo d’affari Christian Huyghues Despointes, che era in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta alla testa della compagnia d’assicurazioni La Nationale, per cui lavorava Andrea Bartali. Christian Huyghues Despointes mi ha riferito le confidenze fattegli dal campione a proposito del suo impegno come messaggero tra ambienti toscani della Resistenza e il Vaticano. Un ruolo di postino che svolgeva nascondendo nella bici lettere che evitava di leggere. Ma Bartali non ha mai fatto cenno alle sue missioni più importanti: quelle tra Firenze e Assisi per procurare i documenti a chi rischiava la deportazione. La memoria di quelle sgroppate eroiche era cosa tutta sua. Solo sua. Gino voleva essere conosciuto e riconosciuto solo per i suoi straordinari exploit di corridore ciclista. La medaglia per il suo coraggio in tempo di guerra gli sarebbe stata eventualmente attribuita in un’altra vita e in un altro mondo, della cui esistenza era convintissimo.
Non ho potuto sapere – e quando potrò saperlo non sarò più in condizioni di raccontarlo in un libro – se nell’altro mondo San Pietro abbia appuntato una medaglia al petto di Gino Bartali. Tutti noi sappiamo invece che, dopo la sua morte, gli uomini di questo mondo hanno finalmente riconosciuto tutti i suoi meriti e in particolare quelli che lui aveva in ogni modo tentato di nascondere. Nel 2005 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha attribuito a Gino, a titolo postumo, la Medaglia d’oro al merito civile della Repubblica italiana, da lui stesso consegnata nel 2006 alla vedova, signora Adriana. Nella motivazione ufficiale del prestigioso riconoscimento possiamo leggere queste parole, naturalmente riferite a Bartali: «Collaborò con una struttura clandestina che diede ospitalità ed assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti in Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei».
Nel 2013 il Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme, l’ente nazionale dello Stato di Israele per la memoria della Shoah, ha proclamato Gino Bartali Giusto tra le Nazioni. Un onore che questa istituzione attribuisce, dopo lunghi studi e rigorose verifiche, ai non ebrei che abbiano agito con coraggio, a rischio della loro stessa vita, per salvare quella di uno o più ebrei all’epoca del genocidio nazista.
Il 2 maggio 2018 lo Stato di Israele ha ufficialmente dichiarato Gino Bartali cittadino onorario. Subito dopo, il 4 maggio, la centunesima edizione del Giro d’Italia è partita da Gerusalemme in memoria di Gino Bartali e della sua attività per salvare gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
Il nome di Bartali è divenuto simbolo di una concezione nobile dello sport e della vita. «In famiglia era prima di tutto un padre ideale. Una persona molto tranquilla, che ricordo pronunciare come un messaggio la frase: “Il bene si fa ma non si dice!”. Un messaggio che spiega molte cose», mi dice il figlio Luigi per illustrare la mentalità dell’uomo Gino Bartali. Luigi prosegue affermando: «Non sopportava i prepotenti. Quando nelle serate in famiglia guardavamo la televisione e lui era magari irritato da un personaggio allo schermo, reagiva scuotendo la testa. Solo questo gesto così semplice, che tutti a casa sapevamo interpretare. In realtà, babbo era uomo di poche parole. Quand’era al volante e un’altra auto ci tagliava la strada, non perdeva la calma, ma pronunciava certe frasi che mostravano la sua irritazione. Sempre le stesse. Diceva per esempio “carciofo lesso!”. Il carciofo lesso manca di sapore come certa gente manca di buon senso».
Che bella quest’idea del carciofo lesso per indicare i prepotenti e gli arroganti. Il carciofo è buono, ma se cucinato male è sprecato. Una persona arrogante è apparenza più che sostanza. Cerca di fare impressione sugli altri, ma è vuota e talvolta pure pericolosa. È appunto un carciofo lesso. Andrea Bartali, il figlio di Gino scomparso nel giugno 2017, ha attribuito al padre una frase precisa, che va nella stessa direzione: «Io non sopporto le prepotenze e i prepotenti».
Gino, che tra i suoi soprannomi ha avuto appunto quello di uomo di ferro, ha espresso la sua voglia di vivere facendo quel che sapeva e voleva fare: pedalare. S’è impegnato nello sport senza rifiutare altre forme d’impegno. Senza chiudere gli occhi davanti ad altri problemi né davanti ai problemi degli altri. Pedalando, ha esaltato se stesso e a suo modo ha fatto politica. Quella nobile, non quella dello struzzo. Quando le vicende e le tragedie della guerra l’hanno messo di fronte all’alternativa tra opposte concezioni dell’esistenza – assumere fino in fondo le proprie responsabilità o nascondere la testa nella sabbia – Gino ha scelto la prima strada. Non ha esitato a correre rischi pur di salvare vite umane. L’uomo di ferro aveva un cuore d’oro. E lo ha dimostrato coi fatti.
Gino Bartali (Ponte a Ema, Firenze, 18 luglio 1914 – Firenze, 5 maggio 2000) è un personaggio capace ancor oggi (forse oggi persino più di ieri) di coinvolgerci, di sorprenderci, di intenerirci. Da buon italiano, è un figlio della propria terra, che è nel suo caso la Toscana. Fiorentino al cento per cento. Come atleta, Bartali ha percorso oltre 700 mila chilometri in bicicletta. Più o meno quelli che gli sarebbero stati necessari a raggiungere la Luna e a tornarsene poi sulla Terra. In quei 700 mila chilometri ci sono quelli che interessano la storia dello sport e quelli che interessano la Storia con la “S” maiuscola.
Proprio nel periodo del conflitto, in quel biennio terribile che fu per l’Italia il 1943-44, Gino ha partecipato a una drammatica sfida in bicicletta. Lo Stivale era in quel momento diviso in due: gli Alleati lo risalivano da Sud e gli occupanti tedeschi, in compagnia dei loro vassalli fascisti, imponevano il proprio dominio e le proprie persecuzioni su una gran parte del territorio. Migliaia di ebrei erano rifugiati in luoghi più o meno sicuri. Buona parte di loro aveva trovato scampo nei conventi. I perseguitati avevano cambiato vita e dovevano cambiare identità. Avevano bisogno di falsi documenti per accedere al razionamento alimentare e soprattutto per non incappare in una retata nazifascista.
L’organizzazione clandestina di cui Gino ha fatto parte si occupava della fabbricazione e della consegna di questi falsi documenti di identità. È a questo scopo che il grande campione delle due ruote ha percorso i chilometri più importanti della sua vita e soprattutto di quella altrui. Migliaia di chilometri nel cuore di un’Italia sconvolta dalla guerra, dove ogni spostamento insospettiva i tedeschi e collaborazionisti al loro servizio. Grazie a persone coraggiose, come Gino e come tanti altri, un’efficacissima rete clandestina ha potuto salvare centinaia e centinaia di ebrei in Toscana, in Liguria e in Umbria.
Finita la guerra, ecco Bartali tornare alla sua amatissima attività sportiva. Senza dire una parola a proposito di quel che ha fatto contro la barbarie nazifascista, macinando chilometri a cavallo della sua bici. Bisogna attendere la fine del secolo e la fine della sua vita perché filtrino informazioni precise sulla sua presenza nell’organizzazione di aiuto ai perseguitati. Col trascorrere dei decenni, libri, articoli di giornale e film (anche se talvolta imprecisi e un po’ romanzati) sono sempre più espliciti a proposito del ruolo di Gino nelle reti che hanno agito d’intesa con la Resistenza.
In realtà, di suoi contatti con la Resistenza Bartali ha parlato. Lo ha fatto in una conversazione privata con un suo amico francese: l’uomo d’affari Christian Huyghues Despointes, che era in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta alla testa della compagnia d’assicurazioni La Nationale, per cui lavorava Andrea Bartali. Christian Huyghues Despointes mi ha riferito le confidenze fattegli dal campione a proposito del suo impegno come messaggero tra ambienti toscani della Resistenza e il Vaticano. Un ruolo di postino che svolgeva nascondendo nella bici lettere che evitava di leggere. Ma Bartali non ha mai fatto cenno alle sue missioni più importanti: quelle tra Firenze e Assisi per procurare i documenti a chi rischiava la deportazione. La memoria di quelle sgroppate eroiche era cosa tutta sua. Solo sua. Gino voleva essere conosciuto e riconosciuto solo per i suoi straordinari exploit di corridore ciclista. La medaglia per il suo coraggio in tempo di guerra gli sarebbe stata eventualmente attribuita in un’altra vita e in un altro mondo, della cui esistenza era convintissimo.
Non ho potuto sapere – e quando potrò saperlo non sarò più in condizioni di raccontarlo in un libro – se nell’altro mondo San Pietro abbia appuntato una medaglia al petto di Gino Bartali. Tutti noi sappiamo invece che, dopo la sua morte, gli uomini di questo mondo hanno finalmente riconosciuto tutti i suoi meriti e in particolare quelli che lui aveva in ogni modo tentato di nascondere. Nel 2005 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha attribuito a Gino, a titolo postumo, la Medaglia d’oro al merito civile della Repubblica italiana, da lui stesso consegnata nel 2006 alla vedova, signora Adriana. Nella motivazione ufficiale del prestigioso riconoscimento possiamo leggere queste parole, naturalmente riferite a Bartali: «Collaborò con una struttura clandestina che diede ospitalità ed assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti in Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei».
Nel 2013 il Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme, l’ente nazionale dello Stato di Israele per la memoria della Shoah, ha proclamato Gino Bartali Giusto tra le Nazioni. Un onore che questa istituzione attribuisce, dopo lunghi studi e rigorose verifiche, ai non ebrei che abbiano agito con coraggio, a rischio della loro stessa vita, per salvare quella di uno o più ebrei all’epoca del genocidio nazista.
Il 2 maggio 2018 lo Stato di Israele ha ufficialmente dichiarato Gino Bartali cittadino onorario. Subito dopo, il 4 maggio, la centunesima edizione del Giro d’Italia è partita da Gerusalemme in memoria di Gino Bartali e della sua attività per salvare gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
Il nome di Bartali è divenuto simbolo di una concezione nobile dello sport e della vita. «In famiglia era prima di tutto un padre ideale. Una persona molto tranquilla, che ricordo pronunciare come un messaggio la frase: “Il bene si fa ma non si dice!”. Un messaggio che spiega molte cose», mi dice il figlio Luigi per illustrare la mentalità dell’uomo Gino Bartali. Luigi prosegue affermando: «Non sopportava i prepotenti. Quando nelle serate in famiglia guardavamo la televisione e lui era magari irritato da un personaggio allo schermo, reagiva scuotendo la testa. Solo questo gesto così semplice, che tutti a casa sapevamo interpretare. In realtà, babbo era uomo di poche parole. Quand’era al volante e un’altra auto ci tagliava la strada, non perdeva la calma, ma pronunciava certe frasi che mostravano la sua irritazione. Sempre le stesse. Diceva per esempio “carciofo lesso!”. Il carciofo lesso manca di sapore come certa gente manca di buon senso».
Che bella quest’idea del carciofo lesso per indicare i prepotenti e gli arroganti. Il carciofo è buono, ma se cucinato male è sprecato. Una persona arrogante è apparenza più che sostanza. Cerca di fare impressione sugli altri, ma è vuota e talvolta pure pericolosa. È appunto un carciofo lesso. Andrea Bartali, il figlio di Gino scomparso nel giugno 2017, ha attribuito al padre una frase precisa, che va nella stessa direzione: «Io non sopporto le prepotenze e i prepotenti».
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Last edit: 18/01/2025 12:12:48